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Nella serata di lunedì 9 marzo, tramite un'edizione straordinaria del TG, il premier Conte ha parlato al Paese annunciando il nuovo decreto legislativo "IO RESTO A CASA" per fronteggiare l'emergenza Coronavirus. Le nuove norme impongono la chiusura di tutti i centri di aggregazione e vietano a tutti di uscire di casa, se non per motivi di primaria necessità, estendendo così la "zona rossa" all'intero territorio nazionale. Inutile dire che nessuno si sarebbe mai aspettato di trovarsi in una condizione anche lontanamente simile, ma l'importante ora è rispettare le regole che ci sono state imposte, per tornare il prima possibile alla normalità. Intanto avremo molto tempo libero a disposizione e dovremo cercare di sfruttarlo al meglio. Come?

 

Ecco 10 idee pratiche e creative per trascorrere queste lunghe giornate.

- Sistemare la casa: ci lamentiamo sempre di non avere abbastanza tempo per mettere in ordine, ora ci si può finalmente dedicare con calma alle faccende domestiche. Spolverare, lavare in terra, pulire i vetri, le tende, sistemare scaffali e credenze. Insomma non abbiamo più scuse!

- Fare ordine negli armadi: approfittarne per fare una cernita dei vestiti che abbiamo e preparare delle buste dove inserire quelli che non indossiamo più, da portare ai più bisognosi quando la quarantena sarà finita. Possiamo estendere il riordino anche agli scaffali del bagno, ai portagioie e ai beauty case pieni di quei campioncini delle profumerie che nessuno utilizza mai. Vedrete che vi sentirete subito meglio!

- Fare pulizia nei dispositivi elettronici: Abbiamo le caselle mail intasate? Ora è il momento di pulirle, disicriviamoci dalle news letter che non ci interessano, facciamo il backup delle foto e dei video e trasferiamoli sull'hard disk esterno. Non ne siamo capaci? È il momento buono per imparare. Oppure possiamo cliccare "esegui" sulla notifica dell'aggiornamento che rimandiamo da mesi e ancora possiamo fare una cernita dei contatti che non ci servono o dei profili social che non ci interessa seguire.

- Prendiamoci cura di noi: il decreto "IO RESTO A CASA" prevede anche la chiusura dei centri benessere, ma chi ci dice che non possiamo improvvisarne uno in casa? Accendiamo una candela profumata, mettiamo della musica rilassante e trascorriamo del tempo con noi stessi. Facciamo una maschera, uno scrub, cambiamo lo smalto alle unghie o semplicemente spalmiamoci la crema idratante così quest'estate per la prima volta avremo la pelle liscissima. Ovviamente maschietti questa proposta è anche per voi!!!

- Chiamiamo gli amici: questa condizione è estesa a tutti quindi come noi ci sono tante altre persone chiuse in casa. Al momento non possiamo vedere i nostri amici ma possiamo sentirci al telefono e passare lo stesso del tempo insieme. Possiamo anche chiamare quell'amica che non sentiamo da tanto o quel parente lontano approfittando per riallacciare i rapporti e coltivare le relazioni.

- Dedichiamoci alle nostre passioni: qualunque esse siano. Ascoltiamo della musica, leggiamo un libro, disegnamo, usciamo in giardino o sul balcone per prendere una boccata d'aria e approfittiamone per fare giardinaggio. Non si può uscire per andare in palestra, ma nessuno ci vieta di fare esercizio fisico in casa. Il web è pieno di video tutorial per un allenamento fai da te. In questo modo non ci annoieremo e rimarremo anche in forma che ricordate, l'estate è vicina!!!

- Cuciniamo le nostre ricette preferite: dopo che avremo fatto sport potremo permetterci di mangiare senza sensi di colpa una porzione di lasagna o una fetta di quella torta che ci piace tanto che questa volta ci sembrerà ancora più buona perché preparata da noi. E poi si sa il cibo è come l'amore, tira su il morale!!!

- Impariamo qualcosa di nuovo: Le nostre vite sono sempre così piene e frenetiche che non abbiamo mai il tempo di dedicarci a qualcosa di nuovo. Internet è pieno di tutorial di qualunque genere, ci sono corsi gratuiti per imparare una lingua ed una quantità infinita di podcast su qualsiasi argomento. Le università forniscono lezioni online a volte anche gratis per tutti, questa è l'occasione giusta per tornare studenti!!!

- Tenere un diario: dedicate una parte della giornata a scrivere, raccontare di voi, cosa provate in questo momento. Abbiamo tanto tempo per pensare e questo non è mai un male, riportate su carta le vostre riflessioni e una volta che tutto sarà finito rileggete quello che avete scritto cercando di arrivare a delle conclusioni.

- Organizzare delle serate a tema in famiglia: Ad esempio "serata pizza", preparate l'impasto e poi ogni membro della famiglia condirà la propria pizza con gli ingredienti che preferisce, sembrerà di essere al ristornate!!!

Oppure una "serata cinema" scegliete un film insieme scaldate dei popcorn ed il gioco è fatto.

Insomma di cose da fare ce ne sono tantissime, indubbiamente non sarà un periodo facile, ma se tutti ci aiuteremo e collaboreremo ci rialzeremo più forti di prima. Inoltre sicuramente, anche se non era tra le proposte, semplicemente per il fatto che l'articolo è esteso a tutti, sotto Natale assisteremo ad un boom di nascite considerevole!!!

 

Quindi viva l'amore e ricordate #IORESTOACASA

Quanto costa un materasso? O meglio, quanto deve costare un materasso per essere buono? Un ottimo materasso matrimoniale costa tra i 600 ed i 1.000 euro, mentre un discreto materasso difficilmente può trovarsi al di sotto di un range compreso tra 450 e 600 euro. Oltre i mille, parliamo di un materasso di grande qualità. 

Ma se affidassimo l'arredo della nostra casa ad un interior designer, così come ha fatto il rapper Drake, quanto costerebbe un materasso ? La risposta è: 360.000 euro.
Il rapper ha affidato all’interior designer Ferris Rafauli l'arredo della sua magione da oltre 4.600 mq. All'interno della casa di Toronto (non a caso soprannominata «The Embassy», ovvero «L’ambasciata»),appaiono oggetti come lo spettacolare pianoforte a coda Bösendorfer, personalizzato dall’artista giapponese Takashi Murakami o lo strepitoso lampadario in cristallo Swarovski da 20 mila pezzi, o ancora l’incredibile armadio a due piani pieno di Birkin per la sua futura moglie. Ma il  vero pezzo da novanta di casa Drake è il materasso da 390.000 dollari (360.000 euro), realizzato in collaborazione con l’azienda svedese Hästens, specializzata nella produzione di materassi di lusso.

Il Grand Vividus, questo il nome della pregiata struttura da letto, è interamente realizzato a mano (servono 4 persone e 600 ore) con un peso di mezza tonnellata, con angoli in pelle, dettagli in ottone dorato e crine di cavallo. Attualmente Drake è la sola persona al mondo che possiede questo materasso, considerato un bene di lusso. Altri nove «Grand Vividus» in produzione, già pagati in anticipo da altrettanti danarosi clienti, verranno consegnati a breve.

A chi frullerebbe mai in testa di discettare di lusso in tempi in cui è già eccitante uscire di casa per buttare la spazzatura o fare la spesa? Apro il giornale e forse trovo una risposta: Maha Vajiralongkorn, il re della Tailandia, che ha scelto un autoisolamento di lusso al Grand Hotel Sonnenbichl a Garmisch-Partenkirchen e per questo soggiorno “dorato” ha pensato bene di portare con sé il minimo indispensabile, costituito dal suo entourage e tutto il suo “harem”, composto di ben venti concubine. Chissà se Sua Maestà le “gestisce” come il mio amico russo Piotr, che non ha concubine ma cinque ex-mogli e alla domanda “ma come fai?”, ci ha pensato su qualche secondo e poi con pacatezza ha sentenziato: “Una alla volta!” Un precursore del distanziamento sociale, il buon Piotr. Al contrario, il sovrano tailandese esercita, a modo suo, sfarzoso come si conviene ad un re, la misura inversa, pur rimanendo ligio all’obbligo di quarantena. Insomma, al di là dei fasti del cinque stelle tra le Alpi bavaresi, il sovrano orientale nel rispetto dell’autoesclusione dalla mondanità allargata, se ne è costruita una tutta sua.

Capriccio? Esagerazione? Soverchieria? Provocatoriamente, direi di no. Piuttosto, ai tempi dell’isolazionismo (a)sociale da Covid-19, questo può essere letto non tanto come esercizio di un privilegio regale, ma anzi come un gesto quasi rivoluzionario e liberatorio, capace di conferire al lusso una funzione addirittura catartica, perché alzi la mano chi non ha avuto mai in questi giorni di quarantena coatta il prurito di fare l’iconoclasta con i grafici e le raccomandazioni in powerpoint dell’OMS o le continue autocertificazioni in un burocratese da commedia all’italiana. Ma non lo facciamo. Sopportiamo e ci adattiamo civilmente e responsabilmente a tutto quello che ci viene detto e chiesto di fare per il nostro bene e quello degli altri, ma quello è il nostro lato razionale. Quello irrazionale e ribelle ci sussurra altro. Ma non c’è via d’uscita, direte voi, mica siamo tutti sovrani.

Ma siete sicuri che bisogna proprio esserlo per evadere anche solo un’ora? In tempi di privazioni, si desidera disperatamente ciò che manca. Vorrei insanamente stringere mani, mischiarmi tra la folla, andare ad un concerto, o al cinema o al teatro, a cena a casa di amici, oppure più arditamente rapinare tempo e prendere la moto e attraversare da ovest a est, e viceversa, una quindicina di confini, dormire dentro una yurta con un’intera famiglia mongola, sorbire una zuppa di coda di bue a Jakarta o addentare uno spiedino di gamberi passeggiando lungo l’affollatissimo Galle Face di Colombo di fronte a un portentoso Oceano Indiano. Vorrei riappropriami del diritto di anelare disperatamente alla solitudine di un deserto mentre sono bloccato nel traffico dell’Olimpica alle 8 del mattino. Oppure, semplicemente passeggiare senza chiedermi se lo sconosciuto che mi sta venendo incontro sia sano o nasconda qualche virione pronto a saltare fuori e infiltrarsi infingardo tra le mie vie aeree superiori. E vorrei che anche lo sconosciuto non nutrisse la medesima diffidenza nei miei confronti. E mentre moltiplico mentalmente tutti i desideri che amerei esauditi subito da un genio della lampada qualsiasi, magari con le fattezze rassicuranti di Ilaria Capua, o da un cerusico geniale che scopra che Coca-Cola e Aspirina (con aggiunta di rarissimo rum agricolo guatemalteco, se no che lusso sarebbe?) non fa sballare, ma anzi ha un buon sapore e in più ammazza il virus con maggiore efficacia della clorochina, non riesco però a trovare uno stimolo che mi consenta di ricominciare a pianificare di realizzarli a una settimana, a un mese, a un anno e via così.

Sono sospeso in un limbo attendista che mi comprime ogni iniziativa e smorza l’entusiasmo. D’un tratto però leggo di Re Vajiralongkorn e mi viene l’illuminazione. Il vero lusso ce l’ho a portata di mano, ma lo stallo obbligato mi ha accecato. E così, mi spoglio, mi immergo nella vasca da bagno, chiudo gli occhi, e fingendo di essere sovrano di me stesso, mi immedesimo, ringrazio mentalmente Sua Maestà per lo spunto e confortato dal tepore del fluido che mi avvolge mi autotrasporto mentalmente nelle acque limpide e calme di un paradiso tropicale. Gran lusso la fantasia in tempi di Coronavirus. È alla portata di tutti, ma non per tutti, perché ha un prezzo altissimo da pagare, quando ci si accorge che l’acqua della vasca si è raffreddata.
Del resto, i privilegi si pagano! Ma sono sicuro che ne valga la pena. Ve la sentite?

Formentera, l’isola più piccola delle Baleari, da sempre meta molto amata dagli Italiani, il 21 giugno ha riaperto le proprie porte ai turisti europei. L’isola, grazie alle sue particolari condizioni geografiche di isolamento e alla scarsa densità di popolazione in inverno, è stata poco colpita dalla pandemia riuscendo a limitare e contenere il contagio. Già dal 4 maggio ha infatti riaperto in sicurezza i suoi hotel, bar, ristoranti e attività turistiche applicando protocolli sanitari di sicurezza e diventando così una delle mete più sicure per trascorrere l’estate.

 A Formentera è possibile vivere una vacanza all’insegna della natura, del relax e del buon cibo, circondati da paesaggi unici. Tra incantevoli scenari mediterranei, spiagge bianche e acque turchesi, ampie foreste di pini e ginepri, 32 percorsi nella natura che conducono al mare, luoghi magici ricchi di fascino e cultura e una gastronomia gustosa e a kilometro zero, ecco 4 buoni motivi per andarci quest'estate.

Varietà di ampie spiagge

Formentera è caratterizzata da moltissime spiagge e calette dalla bellezza unica, dove godere di piacevoli giornate al mare, potendo scegliere tra un’ampia varietà. Tra le spiagge più belle spiccano Cavall d’en Borràs o Ses Illetes, magnifica spiaggia dai fondali bassi, giudicata una delle migliori del mondo anche da Tripadvisor, e Cala Saona, una baia naturale famosa per le incredibili sfumature cromatiche. Particolarmente suggestive anche le spiagge di Ses Canyes (Es Pujols), dalla peculiare forma a conchiglia, Es Arenals (Migjorn), dalla sabbia bianchissima che le dà il nome, e Ses Platgetes (Es Caló), nei dintorni del piccolo paese di pescatori di Es Caló de Sant Agustí. Per chi invece desiderasse scoprire paesaggi diversi, da non perdere è l’Estany des peix, un piccolo lago collegato al mare attraverso un piccolo e stretto canale e caratterizzato da piccole spiagge poco profonde.

Percorsi nella natura

Formentera è la meta perfetta per gli amanti del turismo attivo, che possono scoprire l’isola in libertà attraverso i 32 percorsi verdi che si diramano negli angoli più preziosi e inesplorati, praticabili a piedi, in modalità Nordic Walking, in bicicletta (la maggior parte dei percorsi sono adatti ai ciclisti) o correndo. Tra i percorsi più facili, adatti anche ai bambini, quello da Es Cap al Torrent de S'Alga permette di scoprire uno dei luoghi meno conosciuti e più speciali dell'isola, caratteristico per i suoi scivoli ben conservati per tirare in secco le barche. Chi vuole scoprire i diversi volti di Formentera dovrà percorrere il sentiero che da Sant Francesc porta al Cap de Barbaria, oppure gli sportivi più intrepidi possono percorrere a piedi il ripido percorso Racó De Sa Pujada - Es Ram che conduce fino al mare, alla piccola, pittoresca e isolata insenatura Es Caló des Mort.

Luoghi magici

Formentera non è solo spiagge e natura, ma presenta anche numerosi luoghi ricchi di fascino, cultura e storia. Da non perdere un giro per i fari dell’isola, dall’altopiano de La Mola a Cap de Barbaria, per ammirare panorami di rara bellezza. Il Faro di La Mola, il più antico e più alto dell’isola che sorge su una scogliera di 120 metri, è perfetto per osservare l’alba, che regala uno spettacolo unico e magico. Cap de Barbaria, situato su un promontorio roccioso, è uno di quei luoghi che emanano pura energia e offre uno scenario spettacolare soprattutto al tramonto. Molto suggestivo è anche il sistema di torri difensive che si sviluppa lungo la costa e che anticamente serviva a proteggere l’isola dai pirati. Sul territorio dell’isola di Formentera ce ne sono quattro: la torre de Punta Prima, nei pressi della località di Es Pujols; la torre a tre piani del Pi Catalá (o torre de Migjorn); la torre des Garroveret, a Cap de Barbaria; la torre de sa Gavina, nelle immediate vicinanze di Can Marroig e a nord di Cala Saona. E ancora insediamenti di età prestorica disseminati sull’isola, tra cui il Sepolcro di Ca na Costa o i giacimenti di Es Cap de Barbaria.

Una cucina a km zero

La cucina tipica di Formentera è ricca e sorprendente, creativa e saporita, caratterizzata da un forte legame con il modo di vivere tradizionale e con il mare, e presenta una dipendenza quasi assoluta dai prodotti autoctoni di alta qualità, dovuta all’isolamento dell’arcipelago. In tavola non può mancare la tradizionale ensalada payesa con il Peix sec (pesce secco), inserito nel catalogo “Arca del gusto” dell’Organizzazione Internazionale Slow food. Il pesce secco, che in passato permetteva ai pescatori di essere consumato tutto l’anno, è l’ingrediente imprescindibile di questa ricetta. Da provare sono anche il frit de polp, sofrit pagès (con carne e patate), i calamars a la bruta (calamari fritti nel proprio inchiostro) e il bullit de peix (stufato di pesce con patate).  I dolci e dessert più caratteristici sono il flaó (torta al formaggio fresco con mentuccia), le orelletes (dolce all’anice) e la greixonera (budino di pane alla cannella). Anche il miele e i fichi secchi sono prodotti dell’isola da non lasciarsi sfuggire. Infine, alla cantina di vini Terramoll si organizzano visite guidate con tanto di degustazione alla scoperta del principale vigneto dell’isola.

In un momento come questo, in cui tutta l'umanità è colpita dall'epidemia da coronavirus, che ci costringe a chiuderci in casa, abbiamo tempo da dedicare alla sistemazione del nostro guardaroba. Elimineremo prima ciò che non serve, poi  sistemeremo abiti e accessori a disposizione, che possono risultare utili.

Il primo passo è quello di togliere le cose inutili, cominciando dai regali inutilizzati, doppioni, capi ed accessori scomodi, indumenti di altre taglie, magari acquistati durante una dieta o con qualche chiletto di troppo, ma che comunque conserviamo, soltanto per vedere pieno il nostro armadio.

Il secondo passaggio è quello di trovare le giustificazioni per eliminare, senza considerare il prezzo di costo e senza costruirsi pensieri quali: "forse un giorno lo metterò",  "mi piaceva cosi tanto", "se lo sapesse mia madre" e cosi via.

Terzo ed ultimo step è quello di  suddividere  per pile, pensando alle modifiche che potrebbero apportare la sarta o il calzolaio.  Poi le cose da regalare, rendendo felice una persona cara.

Concluderemo selezionando abiti e accessori firmati o capi vintage.  

A questo punto si procede a buttare la pila di maglie scolorite, calze rotte, cinture a frammenti. Ricordandoci  sempre, però, che gli abiti, anche se strappati possono essere riciclati.

All’inizio, l’idea era quella di fare un giro in Albania e sperimentare un assaggio del sincretismo balcanico a 80 miglia nautiche da casa nostra. Toccata e fuga. Ma se è vero che ogni viaggio inizia con la sua preparazione, è anche vero che appena metti le ruote sull’asfalto gli schemi posso saltare. Per me vale spesso. Sulla strada, la curiosità estemporanea ha il sopravvento. Anche (e specialmente) se mi fa deviare dal tracciato elaborato a tavolino. A maggior ragione se sono da solo. E così ho fatto anche questa volta. Insomma, mi concedo l’impagabile lusso di andare dove mi piace e fin dove mi portano la resistenza della cervicale e del …fondoschiena, prima che si facciano entrambi di lava infuocata.

Certo, per quanto zingaresca possa essere la mia attitudine, mai avrei pensato che la prima tappa del mio giretto nei Balcani sarebbe stata Sarajevo. L’idea si è insinuata prepotente durante la traversata in traghetto verso Spalato. La pulce nell’orecchio me l’aveva messa il mio amico Daniele, che c’era stato oltre vent’anni fa in tempo di guerra. Così, le sue suggestioni sono diventate la mia sfida e ho riprogrammato il mio itinerario mentre mi dirigevo verso l’altra sponda dell’Adriatico.

Arrivo alle 7 del mattino in una Spalato calda e umida. Esco dalla nave e imbocco l’A1 a missile per un centinaio di chilometri, verso il confine croato/bosniaco.

Mentre percorro l’autostrada, penso che dei Balcani ho una vaga idea a metà tra le romantiche e coloratissime sonorità zigane di Goran Bregovic e la memoria cronachistica, frammentaria e confusa di una storia di guerra recente, un tutti contro tutti popolato di genocidi, deportazioni e efferatezze mostruose, a meno di 10 ore di traghetto dalla nostra civilissima e calmissima Europa. Eppure, anche questa è Europa! Di confine certo, un tratto di propaggine occidentale dell’Eurasia, la marca tra noi aspiranti o sedicenti mitteleuropei, con il naso e gli occhi sempre all’insù verso la Germania, o la Francia o addirittura l’Inghilterra, e la prepotente influenza dell’oriente ottomano. Ma proprio per questo mi attrae di più, perché la immagino come una Bisanzio allargata e a volte slabbrata, dove civiltà, etnie, razze, religioni e culture esibite all’estremo continuano a mescolarsi in modo straordinario e affascinante. A volte virtuoso, a volte esplosivo, come burrasche improvvise su un mare calmo. In fondo, la miccia che ha innescato la prima guerra mondiale è stata accesa proprio a Sarajevo.

L’autostrada da Spalato alla deviazione verso il confine Bosniaco scorre liscia, una corda sinuosa che si snoda attraverso una vegetazione di montagna ricca di abeti e pini che impregnano di resina l’aria che respiro, a pieni polmoni. È inebriante. Fa freschetto quassù, ma lo sfondo dell’Adriatico mi scalda idealmente e proseguo senza soste. Esco a Mali Prog e imbocco la statale verso il confine bosniaco. Mi preparo mentalmente a percorrere strade dissestate lungo i segni di quel conflitto recente, ma rimango deluso, o meglio piacevolmente sorpreso. La strada ha un asfalto perfetto e scorre veloce tra colline morbide coltivate a vigneti, fino a quando mi appare il cartello “Carina—Custom”. Eccoci. Ne ho sentite parecchie sulla rigidità e bizzarria dei doganieri balcanici. Ma è un mito che va sfatato: giusto un’occhiata al passaporto e sono fuori dalla Croazia. Cento metri dopo, c’è il gabbiotto dei bosniaci, che sono gentili ed essenziali come i colleghi croati: passaporto e carta verde (ovviamente).

C’è pochissimo traffico, le strade sono quasi deserte e scorrono veloci fino a Mostar, la città del ponte più famoso d’Europa. Sono le 10 del mattino e fa un caldo infernale. Per 5 euro il proprietario di un bar all’ingresso della città vecchia mi fa parcheggiare e mi tiene giubbotto e casco e mi offre una birra gelata (imparo che si dice “pivo”). La scolo d’un fiato. Fanno 42 gradi e si soffoca. Mollo tutto ed entro nel villaggio della città vecchia, ricostruita di recente, insieme al Vecchio Ponte (Stari Most), abbattuto durante i bombardamenti del 1993. Adesso tutto è sotto tutela dell’UNESCO, ma a parte l’architettura perfettamente riprodotta, dell’antico borgo popolato da artigiani e botteghe rimane poco. Oggi è tutto un fiorire coloratissimo di negozietti di souvenir e di bar e ristoranti per le migliaia di turisti che si stipano sulle rampe del Ponte Vecchio.

Il caldo è asfissiante e la marea umana lo amplifica all’inverosimile. Non sono proprio a mio agio e decido di ripartire. Per strada, attraversando la città nuova, cerco i segni di quel conflitto recente. E li trovo, per nulla mimetizzati. Anzi, sotto gli occhi di tutti. Palazzine sventrate e segni di proiettili sui muri. Vestigia mute e immobili di una follia, che fingiamo di aver archiviato, ma che invece ci ricorda che basta un attimo per scivolare di nuovo nel caos.

Esco da Mostar non senza difficoltà e riprendo il viaggio verso Sarajevo, dove arrivo nel primo pomeriggio, guidando senza fretta lungo la statale che costeggia la Neretva. Uno spettacolo. Una delle strade panoramiche più belle che abbia attraversato ad oggi. Il fiume ha un colore verde smeraldo intenso e a quest’ora del pomeriggio una brezza termica scende rapida dai rilievi, prende velocità e increspa la superficie animandola con una carezza delicata. La luce è intensa e i colori sono nettissimi: azzurro del cielo, verde del fiume e grigio delle rocce.

A Sarajevo, i segni dell’assedio durato quasi 46 mesi dal 1992 al 1996 sono più evidenti e profondi. Nuove costruzioni si mescolano ai ruderi semidistrutti lasciati dal conflitto, ma la città oggi è in fermento e ricostruzione continua. Il centro antico è un brulicare di vita, di colori, di odori e di gente e la miscela tra oriente e occidente è palpabile, quasi…grassa e si coglie a vista. Su consiglio della receptionist dell’hotel, mangio ad una specie di bistrot turco, dove mi servono una porzione abbondante di Pita Burek, ripiena di carne speziata. Avrò gli incubi di notte e l’arsura mi farà lievitare la lingua, ma intanto mi lecco i baffi!

Non ho dormito affatto in traghetto e ho guidato con il fuoco nell’aria, quindi gironzolo ancora un po’ per la città vecchia e torno presto in hotel. Mi siedo nel cortiletto per una pausa sigaro prima di andare a dormire. Dal bar limitrofo le note di musica tecno si mescolano armonicamente al canto del muezzin, che chiama alla preghiera della sera. Affascinante, davvero.

L’indomani mattina riparto all’alba per attraversare il confine con il Montenegro, che mi dicono sia affollato, per arrivare nel primo pomeriggio a Kotor e lambire le bocche di Cattaro lungo la strada che le costeggia. Inizialmente, programmo di attraversare da Foca e tagliare per il massiccio del Durmitor. Ma senza rendermene conto il navigatore mi fa scendere di nuovo lungo la Neretva fino a Mostar, per poi deviare verso l’interno, direzione Stolac e R427. Benedetto GPS, che mi regala una tracciato magnifico a valle del fiume Bregava, un luogo incantato e fuori dagli itinerari standard. La strada ha il fondo un po’ sconnesso e irregolare, ma non è per correre, anzi è per un ritmo lento che consente di assaporare il contrasto tra la quiete del fiume a destra e i segni della storia recente alla mia sinistra. Ad un certo punto, l’acqua del fiume si abbassa ed è talmente cristallina che vedo il fondo dalla strada. Mi fermo, spengo la moto. Silenzio e quiete. Nemmeno lo scorrere invisibile dell’acqua rompe l’incanto. La tentazione è irresistibile e cedo. Mi spoglio e mi ficco in mutande nell’acqua gelata e rischio: la bevo. Un refrigerio che bilancia la temperatura interna del mio corpo con quella esterna immersa in quel liquido trasparente e gelido. Rimango a mollo per qualche istante, che a me sembra lunghissimo e bellissimo. Poi, mi rivesto tutto bagnato e riparto e dopo nemmeno dieci minuti sono di nuovo asciutto dentro e fuori. Il termometro segna 43 gradi. Ma io sto benissimo.

Stesso clima torrido al confine con il Montenegro. Il doganiere è gentile e parla inglese perfettamente. Mi chiede passaporto, libretto della moto e carta verde. Glieli consegno, ma vedo che tergiversa e mi preoccupo. Lui se ne accorge, sorride e si scusa, spiegandomi che le linee internet sono saltate e bisogna che aspetti qualche minuto. Mi invita a parcheggiare all’ombra nell’attesa, offrendomi una bottiglia d’acqua che ingollo con avidità (sono brasato a puntino e si vede). Dopo una decina di minuti di chiacchiere amene sul da dove vengo, dove vado, che faccio nella vita ecc. urla qualcosa ad un collega, che entra nell’ufficio e esce con un librone ingiallito dal tempo: “La registro come si faceva una volta: a mano — e ride —, altrimenti rischia di rimanere qui tutta la giornata.” Annota numero di targa, marca della moto e numero del passaporto, mette un timbro, mi prende la mano con entrambe le sue (enormi) e mi augura buon viaggio. Il mito dei doganieri balcanici, duri e brutali si sfalda definitivamente.

La strada da qui in poi è una pennellata netta di asfalto compatto e perfetto su una tela rocciosa, intervallata da cespugli verdissimi e profumati di mirto, abeti nani e altri arbusti che non riconosco. Non la percorro, è lei che mi porta, fino a quando dietro una curva non appare il panorama mozzafiato delle bocche di Cattaro. Una farfalla di acqua blu scuro disegnata da pendii a picco altissimi. Il panorama è magnifico e mi fermo incantato.

Finalmente, all’imbrunire, arrivo a Kotor (Cattaro in Italiano) città patrimonio dell’umanità e a ragione. Per oltre 350 anni, fino al 1797, è appartenuta alla Repubblica di Venezia che ha lasciato un segno indelebile nell’architettura di questa città che si specchia nelle bocche di Cattaro, una serie di profondi e frastagliati bacini perfettamente riparati dal mare aperto, che costituiscono il più grande porto naturale dell’Adriatico e che ricordano un po’ i fiordi Norvegesi. Un gioiellino, Kotor! E ne puoi percorrere le stradine strette decine di volte notando ad ogni passaggio un nuovo o diverso particolare, come se cambiasse prospettiva. È la pietra ad animarsi o il brulichio di turisti che gli dà vita?

L’indomani fa il solito caldo e il sole picchia. Indosso solo una polo e l’air-bag, e parto percorrendo la strada che si inerpica sulla montagna alle spalle di Kotor verso Lovcen. Al 12mo tornante perdo il conto delle curve e mi concentro piuttosto sulla carreggiata che è strettissima e ospita a malapena una macchina. Non è proprio una strada agevole: non c’è guard-rail e tutti a guardare giù il panorama di Cattaro (con annesse distrazioni alla guida!). Per fortuna, io la risalgo protetto a destra da una propaggine sud orientale delle Alpi Dinariche. Dopo 14 km mozzafiato, arrivo in cima e ridiscendo l’altro versante della montagna tra boschi di querce bulgare e abeti verso Cettigne. Curve perfette e veloci fino all’innesto con una stradina larga meno di due metri tra vigne e roveti in direzione del Lago di Scutari, che per due terzi è nel territorio montenegrino e per il restante terzo in quello albanese. La strada si restringe sempre più fino a diventare una lingua di asfalto sconnesso. Ad un tratto, senza preavviso, si apre il panorama del lago davanti a me e mi fermo, godendomelo con gli occhi e con l’anima. Ridiscendo il declivio e arrivo a Virpazar. Imbocco la lungo lago e mi fermo a respirare sulla riva dello Scutari, la più grande riserva d’acqua dei Balcani. In fondo vedo l’Albania, e mi riprometto di andarci un’altra volta.

Dopo il lago, tocca ai monti e più precisamente al massiccio del Durmitor, a nord del Montenegro, fino a 2500 metri di altitudine. Parto presto, perché sarà un percorso di oltre 500km e uscire da Kotor è un’impresa. La strada si snoda lungo le rive del Cattaro per 22km affollati di auto, camion e furgoni, tutti con uno stile di guida a tratti piuttosto eccentrico. Finalmente riprendo la statale panoramica e devio verso Niksic, percorrendo una strada bizzarra che alterna asfalto nuovissimo e, in alcuni tratti, senza preavviso si interrompe e diventa sterrato e pietre. Mi fermo per un caffè ad un bar sulla strada e la donna dietro al bancone mi guarda e mi ordina letteralmente di sedermi (“Sit down!”) e mi indica il cielo che all’orizzonte è plumbeo e squarciato di tanto in tanto da fulmini. Sta per piovere? Torno indietro? Ma no, sono equipaggiato…al diavolo…!

Per raggiungere Savnink, percorro una stradina tortuosa in mezzo alle montagne. Magnifica. Ma fulmini e saette si intensificano, illuminando il cielo ormai grigio scurissimo e carico d’acqua. Bruttissimo segno. Meglio indossare la tuta antipioggia. Mi vesto come un palombaro e vado. All’uscita di un tunnel di 6 km piove, ma è accettabile. Da Savnik devio verso Kolasin e poi Mojkovac per risalire la P4 che costeggia il fiume Tara. Percorro i venti chilometri della strada costruita sul bordo del canyon, secondo solo a quello del Colorado per profondità, trattenendo il respiro, letteralmente incantato. Quando giungo all’innesto con la P5, devio a sinistra e vado verso Zabliak, dove la pioggia smette del tutto. Ho ancora tempo e sono rinvigorito dallo spettacolo del percorso appena compiuto. Mi immetto così in una delle stradine panoramiche che attraversano il Parco del Durmitor, una linguetta d’asfalto stretta e scivolosa per la pioggia, ma piacevolissima e che termina su uno spiazzo dove un agente della forestale mi indica di proseguire per una decina di chilometri in fuoristrada. Il fondo adesso è pietroso, ma l’acqua è scivolata tra le rocce senza creare pantani di fango insidiosi. Sono leggero, non ho bagagli, ho gomme semi-tassellate e così posso mantenere un’andatura allegra, divertendomi come un bambino al parco giochi.

Quando lo sterrato termina, ritrovo l’asfalto, ma non ho la minima idea di dove stia andando. Ad un tratto, mi ritrovo non so come sul Lago Piva, attraverso un ponte e mi fermo. Apro la cartina e usando la bussola mi oriento e proseguo. I cartelli stradali mi confortano. Sto andando a sud verso Niksic e da lì la strada verso Kotor è nota.

Prima dei Balcani ho attraversato la Calabria, la Basilicata e la Puglia e da lì fino alle Marche, totalizzando al momento oltre 4000km, che comincio a sentire, dato che la cervicale si infiamma sempre più spesso e sempre prima del normale. Vorrei scendere in Albania, ma sarà per una prossima volta e così decido di prendermi qualche giorno di riposo dirigendomi verso la Dalmazia croata, per fermarmi un paio di giorni a Brac (Brazza in italiano). L’isola è grande abbastanza da consentirmi qualche giretto interessante. Certo è a quasi 300km da Kotor e ci vorrebbero teoricamente due traghetti per arrivare senza lasciare la Croazia. Ma scelgo di tentare la sorte e passare prima dal Montenegro alla Croazia verso Dubrovnik e poi percorrere il breve tratto di Bosnia dentro la Croazia stessa e rientrarvi. La prima dogana è affollatissima, ma un camionista mi fa segno di avanzare e ovviamente obbedisco! Arrivo alla barriera saltando tutta la fila e nessuno in macchina protesta, capendo perfettamente che loro hanno l’aria condizionata e io, in moto e tutto equipaggiato sotto 40 gradi all’ombra, sfrigolo come un filetto sulla graticola. Passo liscio e proseguo verso Dubrovnik dove devo assolutamente fermarmi. Questa è Ragusa di Dalmazia e con l’omonima in Sicilia (dove sono nato e ho vissuto la mia giovinezza) pare abbia in comune l’etimo: Lau cioè la rupe. Entrambe infatti sono appoggiate sulla roccia, la prima alle pendici del Monte Sergio, la seconda (la mia) sull’altipiano dei monti iblei (senza contare che Ibla, la città antica, è posta su una collina a forma di pesce). Peccato però che i 43 gradi all’ombra, l’elevata umidità e gli orari rigidi dei traghetti per Brac mi impediscono di fermarmi per più di un paio d’ore. Ci tornerò.

Riparto all’una con il sole allo zenit, attraverso il doppio confine come un razzo (neanche vogliono vederli i documenti) e arrivo a Makarska mezz’ora prima della partenza del traghetto per Brac. Un’ora piacevole di traversata, scendo e attivo il gps. Ancora 43km fino all’hotel nel paesino di Postira. Parto che il sole comincia a tramontare. La strada è bellissima e affronto le curve con calma, piegando con dolcezza. Sono stanco, ho male alla cervicale e i gioielli mi fumano dal caldo. Ma sono sereno.

Risalgo una collina, e la strada deserta piega tranquilla verso ovest. La percorro mentre la voce di Joan Baez che canta “Diamond and Rust” echeggia nel casco. Imbocco una discesa che attraversa un boschetto di abeti e ammiro i rami degli alberi ai lati della carreggiata che si piegano gli uni verso gli altri cercando strenuamente di afferrarsi a formare un arco verde. Sullo sfondo il sole è una palla rossa brillante e infuocata, che si staglia netta e senza aloni sul mare azzurro chiaro.

Mi alzo sulle pedane, respiro l’odore di resina, mi abbaglio di luce e semplicemente godo di tanta bellezza. Mi emoziono al punto che comincio ad urlare con tutto il fiato che ho in gola. Di pura gioia.

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