Presto o tardi doveva accadere. Dopo migliaia di chilometri in solitaria in sella alla mia moto, che conosco a menadito, era scritto che alla prima occasione in cui mi lascio convincere a noleggiarla e ad andare in gruppo, qualcosa dovesse andare storto. Ma andiamo con ordine.
È da quando (anni fa) ho letto il romanzo di Henry Miller “Il Tropico del Cancro”, che mi è presa la curiosità di andarci davvero fin laggiù, nei territori del Sahara Occidentale, un lungo cuscino di terra tra il Marocco (che ne esercita la giurisdizione) e la Mauritania, ultimo baluardo prima dell’ingresso in una delle no man’s land più profonde del pianeta. Certo, il romanzo di Miller non ha nulla a che vedere con il luogo geografico, ma la sola suggestione del titolo mi ammalia. Il mio amico Daniele vive in Marocco ed è lui che a settembre mi aggancia facilmente proponendomi di partire da Marrakech e percorrere i duemila chilometri di Transahariana occidentale che porta fino a Dakhla. Non me lo faccio ripetere due volte. Compro cartina e guide, scandaglio internet e raccolgo informazioni, surfo su YouTube e familiarizzo con le immagini dei luoghi per imprimermi i punti di riferimento, le difficoltà dei tragitti e le percorrenze. Poi comincio a pianificare il percorso. So già che tutto questo non mi servirà a nulla, perché una volta laggiù mi farò portare dalla strada. Ma la programmazione non è meno divertente e affascinante del viaggio stesso. Anzi, è un altro viaggio. Alla fine, concludo che l’itinerario è lungo e a tratti decisamente noioso, ma abbastanza agevole. Per renderlo più movimentato, inserisco una puntata a Plage Blanche e lì ho peccato di leggerezza.
Partiamo da Ciampino il 2 gennaio alle 7 del mattino, ancora imbolsiti dal sonno e dagli stravizi del capodanno. Ma abbiamo gli spiriti allegri e pronti ad affrontare tutto. Siamo in quattro, con equipaggiamento leggero: non prevediamo di accamparci, ma di sostare in hotel ad ogni tappa. Me ne pentirò.
Ho un posto finestrino e mentre l’aereo scende di quota rimango incantato dai rilievi ondulati dell’Atlante che si innalzano dalla superficie della terra come grinze di pelle di uno sharpei. È tutto giallo ocra e marrone e immagino l’aria secca e polverosa che si respira a terra. Non vedo l’ora di sostituirla allo spessore di polveri sottili accumulato a Roma nelle narici e negli alveoli polmonari.
Noleggiamo le moto a Marrakech, quattro enduro tedesche di media cilindrata che nei patti dovevano essere praticamente nuove. Invece, appena accendiamo i quadri, scopriamo che sono parecchio chilometrate. La mia ne ha quasi 83mila sul groppone, l’ABS non è disinseribile (e in fuoristrada questo è un incubo), frena a singhiozzo e le sospensioni anteriori sono praticamente inesistenti. Per non parlare della sella ribassata che non si può rialzare e sono così costretto a guidare con le ginocchia alle orecchie. Scopro anche che oltre i 3mila giri, dal carter del motore arrivano vibrazioni preoccupanti. Ormai è fatta e per quello che costano, possiamo anche correre qualche rischio, tanto la velocità di crociera non andrà mai oltre i cento all’ora. E poi abbiamo un mezzo di sostegno con meccanico a bordo che ci seguirà fino al Tropico del Cancro.
Partiamo subito, direzione Agadir, dove passeremo la notte, prima di affrontare l’anti Atlante e poi giù da Guelmim fino a Dakhla attraversando, Tan-Tan e Boujdour.
I duecento chilometri che separano Marrakech dalla sorella sull’Atlantico sono noiosi e abbastanza piatti. Li percorriamo in circa tre ore con calma e fermandoci per un panino. Il clima è secco. Durante il giorno la temperatura è gradevole e al sole si raggiungono facilmente i 25 gradi. Ma la sera e al mattino presto, la temperatura scende a 10 gradi e sarà di poco sopra lo zero man mano che ci addentreremo tra i rilievi dell’Anti Atlante a sud.
Ci svegliamo con calma, pronti per i primi quattrocento e passa chilometri fino a Guelmim. Colazione e partenza. Tocchiamo Tafraut attraversando l’Anti Atlante da Ait Baba, lungo un percorso di montagna pieno di tornanti da fare in quarta piena dentro un paesaggio splendido, illuminato da un sole che acceca e rende i colori nitidissimi. Da lì ci spostiamo verso Ait Mansour dove sostiamo per il pranzo. Poi, anche se il sole comincia a calare, ci dirigiamo verso le Gole di Ait Mansour. Lo spettacolo è unico. La strada all’inizio si immerge in formazioni rocciose antichissime che richiamano certi percorsi cinematografici del vecchio West americano, in stile Colorado. Poi inizia a scendere lungo il corso del Mansour fino a restringersi in una striscia sinuosa di curve che corre a fianco del fiume. Ne usciamo satolli e riprendiamo la strada verso Ait Herbil e da lì dritto a Guelmim per la notte.
Arriviamo infine al punto di sosta che è già sera inoltrata. La temperatura è rigida sull’altopiano. Per fortuna il campeggio dove passiamo la notte ha bungalow di tufo che mantengono all’interno il calore accumulato durante il giorno e si sta bene. Ci preparano delle tajine di carne deliziose e dopo cena ci fermiamo per un tè sotto le tende berbere, dove arde un falò che illumina la notte. Dormo vestito, sotto una trapunta senza lenzuola. Mi addormento subito. Al mattino la temperatura è prossima allo zero, faccio una doccia bollente, mi vesto e dopo colazione, via verso le Plage Blanche. Oggi abbandoniamo il clima freddo delle montagne per quello più mite lungo l’Atlantico.
Dopo una settantina di chilometri tappezzati da una fitta vegetazione di fichi d’india (mai visti così tanti, nemmeno dalle parti mie in Sicilia), ci fermiamo su un’altura brulla che domina l’imbocco nord di Plage Blanche, una lunga striscia di arenile che finisce a Cap Draa, dove sfocia l’omonimo fiume che attraversa il Marocco. Il clima è gradevolissimo, anzi fa quasi caldo. La spiaggia è deserta. Solo un paio di militari si fermano e ci spiegano che adesso la marea è bassa e la spiaggia è facilmente percorribile per una quarantina di chilometri, fino alla foce dell’Aoreora. Da lì bisogna addentrarsi per circa quattro chilometri lungo il letto asciutto del fiume e riprendere una pista di pastori che risale il versante ovest fino ad incrociare la N1 verso Tan-Tan. Ci avvertono però che la marea qui è bizzarra e loro non sanno dire con esattezza quando risalirà. Ma dovremmo fare in tempo. Inshallah!
Scendiamo in spiaggia con cautela, guadiamo la foce semi asciutta del Oued Bou Ssafen che delimita l’ingresso a Plage Blanche e dopo qualche giretto per familiarizzare con il bagnasciuga compatto, giù a manetta verso sud-ovest per incrociare il vecchio Forte a presidio della falesia che scende a picco in prossimità del fiume Aoreora. E qui inizia l’avventura. O dovrei dire la disavventura.
Siamo così eccitati dalla corsa sul bagnasciuga compatto e deserto che guidiamo per oltre un’ora a ad andatura piuttosto allegra. Ovviamente, superiamo il Forte senza nemmeno accorgercene ed a un certo punto, quasi a Cap Draa, le moto affondano nella sabbia mista a gusci vuoti di telline. La marea sta salendo e siamo in un punto stretto. Tornare indietro in quelle condizioni e senza nemmeno sapere cosa troveremo è impensabile. Oltre le dune alle nostre spalle, scovo una pista di sabbia abbastanza compatta, ma occorre portarci le moto per affrontarla. Impieghiamo un paio d’ore buone a metterle in sicurezza e percorriamo la pista per qualche chilometro fino ad un’erta che oggettivamente è impraticabile con le nostre motociclette, comunque pesanti e con gomme non adatte ad una scalata di quell’intensità. Un militare (siamo dentro un’area controllata dall’esercito) ci aiuta. Proviamo a spingere una moto sulla salita, ma è fatica sprecata. La sabbia è profonda e asciutta e mista a grossi sassi. Uno sforzo inutile sotto il sole che picchia come ad agosto. Peraltro, ne abbiamo 4 di moto da far risalire e noi siamo in quattro più il milite ignoto, anzi in tre, visto che uno di noi è giù di giri, stremato dalla fatica e da qualche acciacco che si è procurato mentre affrontava la lingua di sabbia.
Torniamo sulla pista e ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso nord-est. Non abbiamo segnale GSM e realizzo che è così da quando siamo scesi sulla spiaggia. Non riesco a fare un punto preciso di dove siamo. Cerco di aiutarmi con la cartina, i punti di riferimento a terra, la bussola e l’altezza del sole, mettendo in pratica qualche rudimento marinaresco. Ma un conto è avere sotto mano una carta nautica armato di compasso e squadrette, e un altro è armeggiare con una Michelin. Alla fine, mi rendo conto che siamo ad una decina di chilometri di distanza dall’imboccatura dell’Aoreora. Però, la direzione è corretta. Peccato che più avanzo, più la sabbia perde compattezza e sono troppo stanco per andare a tutta manetta. E infatti la moto sprofonda nella sabbia, lentamente, e altrettanto lentamente cado. Cerco di tirarla su immediatamente, vinto da una strana frenesia. Voglio uscire da quel pantano di sabbia. Ma non ho l’aiuto dei cilindri laterali del mio GS, e in più gli stivali non hanno presa sulla sabbia asciutta e finissima e spostare duecento chili diventa un’impresa titanica. Su qualunque altro terreno, l’avrei però tirata su in dieci secondi. Alla fine ci riesco, ma mi rendo conto di aver dato fondo a tutte le mie energie. Inutile proseguire. Sono in sella da sette ore, sotto un sole cocente che a queste latitudini è quasi allo zenith (siamo a 800km dal Tropico del Cancro), né io né gli altri abbiamo più acqua e cibo. L’unica è aspettare che qualcuno passi per chiedere aiuto. Mi accascio sulla sabbia e aspetto che il resto della ciurma mi raggiunga. Non penso a nulla. Non rifletto. Mi spengo per qualche minuto. Poi urlo, incazzato nero. Svuoto la rabbia e l’impotenza e mi calmo. Ricomincio a ragionare.
Gli altri arrivano dopo una mezz’ora. Analizziamo la situazione e siamo d’accordo. Non ha senso continuare su un terreno così, senza acqua o cibo e senza sapere se la pista si interrompa o continui fino all’Aoreora. Il punto in cui ci troviamo consente invece di ridiscendere in spiaggia facilmente, è ben riparato e la sabbia è calda e asciutta. È deciso: si dorme qui tra le dune e domattina, quando la marea scenderà di nuovo, rimetteremo le moto in spiaggia e via. Disagiati, ma non disperati. Anzi, in fondo quasi divertiti per il lusso di un’avventura che alla nostra età mai avremmo pensato di vivere.
Sono quasi le cinque del pomeriggio e il sole comincia a scendere sull’orizzonte. Per ammazzare il tempo, vado “in perlustrazione”, scavalco una duna e scendo in spiaggia. Qualche centinaio di metri davanti a me ci sono due motociclisti insabbiati e un “aborigeno” in jillaba che cerca di aiutarli. Mi avvicino per dare una mano. La moto affondata nella sabbia bagnata è un endurone nuovo di pacca con su tutta la Santa Barbara di accessori della casa: borse laterali in alluminio, top case extra large, borse morbide, tenda, sacco a pelo, navigatore GPS e serbatoio da 32 litri pieno. A occhio e croce peserà almeno 350kg, se non di più. Logico che affondi nella sabbia ammorbidita dalla marea che si alza. Il centauro è spagnolo, ma parla un inglese pulitissimo. Smonta tutto e gli spiego che l’unico modo di tirare fuori la moto dal fosso che ha scavato accelerando è buttarla giù su un fianco senza pietà e trascinarla facendo perno sul cilindro. Accetta senza fiatare. Operiamo e in un istante è fuori. Con lui viaggia un suo amico indiano, in sella ad una Himalayan, che osserva il recupero con asiatica ieraticità e distacco. Scambio due parole con loro. Hanno fatto il nostro stesso percorso e come noi si sono spinti oltre l’uscita del Forte, rimanendo intrappolati dalla marea. Ma, vogliono provare a tornare indietro o almeno percorrere quanta più sabbia possibile verso la foce dell’Aoreora e magari accamparsi al sicuro e aspettare che la marea scenda. Quando ripartono, chiedo all’uomo in jillaba se può aiutarci in qualche modo e con un francese stentato mi spiega che è un militare ed è responsabile di un posto di controllo, poco più di una garitta in prefabbricato, situata sulla sommità della falesia. Mi segue al nostro accampamento e mi dice qualcosa che non capisco, ma il gesto di aspettare lì è inequivocabile. E tanto dove dovremmo andare? Lo vedo inerpicarsi come un camoscio sulla falesia e sparire oltre il ciglio. Mezz’ora dopo ritorna con tè caldo, sei litri d’acqua, pagnotte e scatole di sgombro sott’olio. Dio lo benedica!
Mangiamo seduti per terra sulla duna, di fronte ad un tramonto mozzafiato. Il sole è un cerchio arancione luminosissimo che incombe morbido su Cap Draa e fa brillare l’Oceano. L’aria è ancora sufficientemente secca da consentire ai colori di stagliarsi netti, senza nuances. L’odore del salmastro si mescola con il pulviscolo della sabbia in un mix unico. Mi giro e dietro di me sulla volta celeste che dall’azzurro volge al blu scuro della notte si staglia netta una luna abbagliante, seguita dalla cintura di Orione. È semplicemente magnifico, mi dico. E non me ne importa niente di essere bloccato nel mezzo del nulla, senza la possibilità di comunicare con alcuno, con poco salatissimo cibo, senza tenda, senza sacco a pelo, senza coperte e di dover passare la notte qui sulla nuda terra. Sono in pace con il cosmo. Almeno in quell’istante.
Mi scuoto dall’incanto e vado a far legna. La notte si preannuncia umida e fredda. Mi arrampico sulla falesia e raccolgo sterpi secchi e pezzi di legno. Poi torno, estraggo della benzina dal serbatoio della moto e dò fuoco a tutto. È un attimo e viene su un falò degno della Santa Inquisizione. Il nostro amico berbero ci ha portato una coperta. Un po’ striminzita, ma ce la facciamo bastare e comunque il fuoco è alto e riscalda. Mi chiedo che succederà quando ci addormenteremo e si spegnerà. Adesso la temperatura è ridotta ad una manciata di gradi appena sopra lo zero. Mentre immagino turni di guardia, anche per tenere lontano qualche animale, mi assopisco sotto una volta trapunta di stelle che non vedevo in tale quantità da quando ero bambino in Sicilia e l’inquinamento luminoso semplicemente non esisteva.
La notte scorre lentissima. Ho freddo, le protezioni rigide del giubbotto non mi consentono di poggiare la testa a terra e Daniele russa sonoramente come la sega di un boscaiolo. C’è un umido che si taglia con l’accetta e dall’Oceano sale una bruma fredda e bagnata che penetra le ossa. Mi alzo più volte. Gironzolo un po’ per riscaldarmi e in una delle mie sortite vado anche in perlustrazione sulla pista di sabbia, giusto per essere sicuro che porti da qualche parte. La percorro per oltre un chilometro. Sono le 4 del mattino, la luna non è tramontata del tutto e un riverbero di chiarore consente ancora di orientarsi al buio. Ho una torcia con me, ma preferisco non accenderla per non attirare insetti o animali. Le orecchie sono tese e l’udito al massimo. Ma per quanto mi sforzi, non c’è suono diverso dal rumore attutito dei miei stivali che affondano nella sabbia e delle onde dell’Atlantico che si infrangono sul bagnasciuga.
Sto quasi per tornare indietro, quando noto che la pista non procede più parallela all’arenile, ma devia verso l’interno. La percorro. Adesso le dune alla mia sinistra sono più numerose e il fragore delle onde è appena un suono di fondo intermittente. Calcolo che tra il tracciato e la spiaggia ci saranno più di duecento metri. Di sabbia finissima come polvere. Non ha senso continuare. Torno indietro, convinto che il punto dove siamo è il migliore per ridiscendere sul bagnasciuga e tornare indietro. Ancora non lo so, ma questa passeggiata mi sarà utile domani mattina per impormi sulla volontà degli altri di affrontare la sabbia. Benedetta insonnia.
Alle 8 del mattino, il nostro amico berbero arriva con tè, pagnotte, formaggio cremoso e olio d’oliva per la colazione, che consumiamo con voracità. Il sole si comincia ad intuire dietro la falesia, ma l’aria è ancora gelida e accendiamo un altro falò per riscaldarci. Vorrei una doccia calda. Due ore dopo, cominciamo a spostare le moto sulla spiaggia. Hanno tutti smania di ripartire, ma non è ancora il momento. Il sole è basso, la marea è alta e la risacca prepotente, e bagna la sabbia rendendola impraticabile. Intorno alle 11 decidiamo finalmente di muoverci. Sgonfio un po’ le ruote e parto per primo. All’inizio, la moto affonda e si fa fatica, ma insisto e apro il gas, riuscendo a galleggiare quel tanto che basta per tirare dritto. Ad un certo punto, però, sbaglio traiettoria e mi inchiodo sul bagnasciuga ancora troppo umido. Butto giù la moto e trascino il retro fuori dal fosso di sabbia, la rimetto in piedi e lentamente riparto, faticando non poco a trovare una striscia di sabbia meno mobile di quella. Sono già stanco, ma continuo per una mezz’ora a tutto gas e finalmente vedo la foce dell’Aoreora. Mi sembra di aver viaggiato per ore. Mi fermo e aspetto che gli altri mi raggiungano dopo una mezz’ora, che a me sembra però lunghissima. Voglio uscire da lì.
Abbiamo impiegato un’ora buona ad arrivare e non sono mai salito oltre la terza marcia. Abbiamo due opzioni, una comoda e sicura: possiamo tirare dritto e in meno di tre quarti d’ora saremmo al punto di accesso del giorno prima e da lì possiamo proseguire fino a Tan Tan sull’asfalto della N1. L’altra opzione conduce di nuovo verso l’ignoto e consiste nell’addentrarci nel letto semi asciutto del fiume e cercare la pista che si connette con la N1 pochi chilometri più a est. Avete già indovinato su quale delle due si è indirizzata la scelta.
Il guado della foce è in realtà uno stagno dal diametro ampio un centinaio di metri, abbastanza profondo e limaccioso. Cammino lungo il bordo affondando gli stivali nella sabbia, alla ricerca di un accesso per le moto. L’aria intorno è ferma, non tira un refolo, e il sole comincia a picchiare duro. Non c’è anima viva. Nemmeno i gabbiani del giorno prima. Trovo un punto di ingresso agevole dalla corda nord per guadare in mezzo, dove l’acqua è più bassa e il fondo, misto a sabbia e sassi, è abbastanza compatto. Mentre in testa la traiettoria prende forma, dal nulla appare una carovana colorata di fuoristrada portoghesi che si immette nel letto dell’Aoreora a tutta velocità, proprio lungo il percorso che ho immaginato. Si può fare, mi dico.
Guadiamo facilmente e ci fermiamo a chiedere informazioni alla comitiva di fuoristradisti. Ci spiegano che il letto è facilmente percorribile. Sabbia, sassi, qualche pozzanghera e parecchio fango, ma niente di drammatico. Dopo circa quattro chilometri, il fiume forma una larga ansa quasi circolare che devia verso destra e alla fine della curva c’è una pista di pastori tuareg che ci porterà fuori da lì fino ad incrociare l’asfalto. Ci suggeriscono di seguire le loro tracce fresche e così partiamo. Un vero divertimento. Un percorso fuoristrada spettacolare, impegnativo, ma divertente. A un certo punto, incrociamo i due centauri del giorno prima, alle prese con l’ennesimo stop del primo in mezzo al fango. L’indiano appare spossato ed esasperato. Ci fermiamo ad aiutarli e decidiamo di proseguire insieme. Da qui in poi sarà un continuo di stop per aiutare lo spagnolo a spostare i quattrocento chili della sua motocicletta in mezzo a quell’inferno di pietre, rena fine, fango e pietrisco bagnato e scivoloso. A quella che scoprirò essere una distanza di duecento metri dall’imbocco della pista, la ruota davanti della mia moto si affloscia. Maledizione! Ci mancava pure questa. Urlo di rabbia. Nacho si ferma e con calma mi dice che non è grave, che possiamo ripararla. Comincia a cercare il buco, ma io capisco subito che non c’è nessun foro. Il cerchio è irregolare in almeno quattro punti e la ruota con la pressione ridotta per galleggiare sulla subbia non ha buona presa e si è sgonfiata. Proviamo a riempirla d’aria con il compressore portatile, ma senza successo. Bisognerebbe applicare del sigillante e gonfiare con un compressore più potente. Basta, mi arrendo. Chiudo la moto, prendo latitudine e longitudine, tiro giù dal calendario un paio di santi, che mi auguro siano molto tolleranti, e comincio a camminare per sbollire la rabbia. Guardo la cartina e faccio un punto a occhio regolandomi con il paesaggio. Capisco (anzi mi convinco) di essere a 8 chilometri di distanza dal punto in cui il fiume incrocia la N1. Nella peggiore delle ipotesi, posso camminare fino a lì e poi cercare aiuto. Daniele invece manda subito via Luca a cercare assistenza. Rimaniamo così in quattro d proseguiamo verso nord-est. Io a piedi, gli altri tre in moto. La velocità è la stessa, grazie all’amico iberico che affonda un metro sì e l’altro pure.
Qualche centinaio di metri dopo il punto dove ho lasciato la moto, il letto però diventa una pietraia infernale, alternata a sabbia profonda e finissima, portata dal Sahara che incombe da est fino ad affondare sul greto asciutto. Non vedo più le tracce dei fuoristrada né quelle di Luca. Strano. Bisogna uscire da lì, mi dico. C’è acqua e quindi di notte sarà un pieno di animali e alcuni non propriamente amichevoli. Non possiamo decisamente permetterci di rimanere. Cammino per quattro ore sotto il sole cocente, senza acqua né cibo. Le fauci secche e le labbra screpolate. Un sole insistente mi cuoce la pelata, che bagno sistematicamente ogni cinque minuti con l’acqua salata dei rigagnoli che corrono lungo il greto. Dietro, gli altri tre mi seguono con le moto. A metà di un tratto tempestato di sassi rotondi e levigati, che metterebbero a dura prova anche i più esperti enduristi, lo spagnolo si ferma, torna indietro e annuncia serafico di aver trovato la pista d’uscita. A fatica guadagniamo il margine asciutto del greto e saliamo in cima ad una collina a gradoni di roccia grinzosa e scivolosa. In alto, il panorama è splendido e il sole comincia a recitare lo spettacolo dell’ennesimo tramonto. Non troviamo l’uscita tuttavia, e sta per fare buio. Mi avvicino e leggo il GPS. Il nostro amico ha sbagliato lato, leggendo al contrario lo schermo. Capita. Scendiamo nuovamente sul greto e lo tagliamo in perpendicolare. Sul lato opposto, seminascosta da una piccola duna, parte una pista battuta. Finalmente! Salgo sulla moto di Daniele e partiamo. Sono le 8 di sera. Sette ore dopo, alle 3 del mattino, sto mangiando una pizza gommosa, ma deliziosa, nella veranda di un hotel a Tan Tan, ingollando litri di acqua. Farei carte false per una birra gelata.
L’indomani mattina mi attrezzo con un fuoristrada per rimorchiare la motocicletta. Daniele e Luca dichiarano di volermi aspettare per ripartire insieme per Dakhla. Li convinco invece ad andare da soli. Io li raggiungerò dopo aver recuperato quel pezzo di ferro inglorioso e essermi sincerato che può continuare a camminare fino al Tropico e ritorno. Si tratta di quasi 3mila chilometri e non voglio più sorprese. Più affondo verso sud, meno chances ho di ripararlo.
Riparto per l’Aoreora con un Land Rover scassato, guidato da un berbero gentile ma taciturno, anche perché non parla una lira di francese. Con me ci sono Adil e Ahmid. Dopo tre ore, raggiungiamo il greto del fiume e con l’ausilio delle coordinate e delle foto che mi danno i punti di riferimento, troviamo la moto a meno di duecento metri dall’imboccatura della pista. Il giorno prima eravamo vicinissimi e mi maledico silenziosamente. Ahmid ripara la ruota e parte a razzo. A mezzanotte siamo in hotel. L’indomani mi aspettano 800km fino a El Aioun per raggiungere Daniele e Luca e poi ingresso trionfale a Dakhla. Illuso. Al mattino, giro la chiave d’accensione e premo lo starter. Dal motore arriva un rumore secco, intermittente. Inarcò un sopracciglio, smonto il carter del motore. I miei sospetti diventano amara certezza quando vedo il cuscinetto del volano spezzato, così come il perno che lo regge.
Adesso, il Tropico del Cancro non è più una sfida stradale, ma esistenziale. Un lusso che ho l’obbligo di soddisfare! Presto.